Dic 222018
 

Che gli pneumatici inquinano, si sa. Polveri sottili, sostanze sintetiche ottenute dagli idrocarburi, difficile smaltimento degli scarti. Moltissime sono le soluzioni ecologiche che si stanno sperimentando a questo problema, soluzioni di cui anche noi, sulle nostre pagine, abbiamo dato ampio risalto. L’ultima in ordine di tempo arriva dal Salone dell’auto di Ginevra ed è stata presentata dal noto produttore di pneumatici americano Goodyear.

E’ stato ribattezzato Oxygene, e il nome non è casuale. Il progetto mira a ripulire l’aria e l’ambiente in cui viviamo da smog e polveri sottili che minacciano la nostra salute. Come? Il trucco sta nel fianco dello pneumatico, dove cresce muschio vivo capace di assorbire l’umidità e l’acqua presenti nell’atmosfera e sulla superficie stradale. Questa, entrando in circolo nella spalla dello pneumatico attiva un processo di fotosintesi come quello che normalmente avviene in natura facendo si che venga prodotto ossigeno.

Per comprendere la portata di questo miracolo della scienza, in una città come Parigi, ad esempio, girano circa 2 milioni e mezzo di veicoli producendo una quantità enorme di CO2. Facendo riferimento a questo dato, Oxygene riuscirebbe ad assorbire annualmente, per nutrire il muschio, circa 4.000 tonnellate di CO2 e a rilasciare circa 3.000 tonnellate di ossigeno.

Ma i benefici di questa innovazione non terminano qui. Infatti la pulizia dell’aria da sola non risolverebbe i problemi dei nostri centri urbani. L’altro problema sarebbe il riciclo di tutti gli pneumatici altamente inquinanti. Con Oxygene anche questo sarebbe risolto. La sua produzione, infatti, nasce da un processo di stampa 3D che utilizza polverino di gomma proveniente da altri pneumatici riciclati, quindi a impatto zero e secondo le procedure dell’economia circolare.

Oxygene è poi uno pneumatico smart, dotato di sensori e tecnologie all’avanguardia. Durante la fotosintesi, accumula energia che serve ad alimentare l’elettronica integrata. Sensori disposti lungo la sua superficie forniscono energia al sistema di intelligenza artificiale e alla striscia di LED lungo il fianco capaci di cambiare colore in virtù delle manovre che si stanno compiendo, quasi come gli indicatori di direzione (frecce) avvisando gli utenti della strada delle manovre imminenti, come cambio di direzione, frenata, cambio di carreggiata.

Uno pneumatico per il futuro, capace di poter contribuire anch’esso al miglioramento delle condizioni di vita nei centri urbani e come detto dall’Amministratore Delegato di Goodyear “Oxygene intende sfidare il nostro modo di pensare lo pneumatico e contribuire ad alimentare il dibattito sulla mobilità del futuro intelligente, sicura e sostenibile”.

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Dic 212018
 

Un semplice lavoro in classe, un abaco con cui scoprire le tipologie della carta, ed ecco che la scintilla è scattata. Edoardo, come i suoi compagni, ha svolto il proprio lavoro in digitale da presentare alla classe. Una ricerca ricca, approfondita, ma con un elemento in più; la scoperta e la trattazione di qualcosa di poco noto, una pregiata carta di origine giapponese. L’argomento mi ha subito sorpreso ed entusiasmato al punto di aver proposto all’alunno di approfondirlo. Come spesso capita i risultati sono superiori alle aspettative e lascio a voi il giudizio. Tutta farina del suo sacco, il sottoscritto ha solo curato l’aspetto grafico di questo articolo. Bravo Edoardo e buona lettura a tutti. Prof. Betto


Washi和紙 deriva dalle parole wa=giapponese shi=carta ed è una carta tradizionale fabbricata a mano utilizzando le fibre interne di alcune piante. Dal novembre 2014, l’arte giapponese della lavorazione della carta è stata inserita dall’UNESCO tra i Patrimoni orali e immateriali dell’umanità.

La carta artigianale washi, nasce dalla lavorazione del cosiddetto “gelso della carta” (kozo) ed è un materiale di estrema raffinatezza, utilizzato per oltre mille e trecento anni come supporto per gli scritti buddhisti, per l’ikebana (l’arte della disposizione dei fiori recisi), per gli origami (arte giapponese di piegare la carta), per lo shodo (arte giapponese della calligrafia), per l’ukiyo-e (stampa artistica giapponese su carta impressa con matrici di legno), per decorare lanterne, paralumi, kimono, paraventi.

Pur essendo nota come “carta di riso”, la washi non si produce con il riso bensì con le fibre di alcune piante tipiche giapponesi: il Kozo, la Mitsumata e la Gampi. Secondo la cultura giapponese, la prima pianta rappresenta l’elemento maschile con fibre robuste, la seconda quello femminile delicato e morbido e la terza quello nobile, ricco e longevo.

KOZO MITSUMATA GAMPI

Per produrla, si possono usare anche fibre di bamboo, canapa, riso e frumento, ma queste conferiscono caratteristiche differenti al prodotto finale.

LE ORIGINI

La leggenda racconta che, sia stato un monaco buddhista coreano a introdurre la washi in Giappone, attorno al 610. Rimase però a lungo destinata solamente alle classi più agiate. Nel corso dei secoli, la lavorazione della carta divenne la specializzazione di molte località del Giappone ed oggi ne esistono migliaia di varietà di grande raffinatezza.

La carta giapponese è stata usata fin dall’antichità all’interno delle abitazioni per la sua capacità di far filtrare la luce, attenuandone l’intensità e donando così allo spazio un’illuminazione soffusa. Per questo motivo viene ancora oggi impiegata per realizzare le famose Chouchin, le lanterne usate per rituali, per cerimonie, per decorazioni (come insegne nei negozi o appese fuori davanti un’abitazione con il nome della famiglia).

Nel periodo della dinastia Heian (794-1185), gli artigiani raggiunsero uno straordinario grado di maestria nella fabbricazione della carta e produssero varietà di washi di altissima qualità. Le tecniche di fabbricazione si raffinarono sempre di più e la pasta della carta fu arricchita con petali, erbe, foglie, polveri d’oro e d’argento, fu aggiunto dell’incenso che preservava la carta dall’attacco degli insetti.

Presso la corte imperiale le carte pregiate venivano utilizzate nello scambio di poesie waka (brevi componimenti poetici). Nelle successive epoche Kamakura (1185-1333) e Muromachi (1333-1568), la produzione di washi si intensificò, restando comunque caratteristica delle comunità contadine, che vi si dedicavano nei lunghi mesi invernali. Servono, infatti, acqua fredda e pura e basse temperature per ammorbidire la corteccia di kōzo, di mitsumata e dei più rari vegetali grezzi come il gampi.

Esistono molti tipi di washima i più comuni sono tre:

  • Ganpishi (雁皮紙), maggiormente utilizzato per la creazione di oggetti di artigianato o per libri, ha una superficie liscia e lucida.
  • Kozogami (楮紙), la più diffusa, simile alla tela.
  • Mitsumatagami (三椏紙), anticamente utilizzata per la stampa della carta moneta.

LA DECORAZIONE

La decorazione delle carte washi avviene attraverso diverse tecniche:

  • con stampe intagliate a mano in legno (xilografia). La xilografia giapponese è una tecnica di incisione artistica unica al mondo. E’ una tecnica non tossica perché per la creazione delle immagini vengono usati legni naturali, colori ad acqua e carta fatta a mano.
  • con stencil che vengono ripetutamente spostati per ripetere il motivo (katazome).
  • con serigrafia attraverso teli di seta (chiyogamiusando colla di amido di riso per bloccare colori mentre si applica il disegno (yuzen).

Questi metodi di colorazione e disegno della carta sono simili a quelli usati per i tessili.

LA LAVORAZIONE

La lavorazione artigianale di questa raffinata carta è praticata oggi in tre comunità del Giappone: nel quartiere di Misumi della città di Hamada, Prefettura di Shimane; nella città di Mino, Prefettura di Gifu; nel villaggio di Higashi-Chichibu e nella città di Ogawa, Prefettura di Saitama. Si tratta di carta lavorata a mano, di buona consistenza, resistente e anche traslucida.

I giapponesi scoprirono che, le fibre del Kozo una pianta della famiglia del gelso, era particolarmente adatta per creare una carta sottile ma allo stesso tempo resistente. Fu introdotto anche l’uso di un nuovo collante mucillaginoso estratto dal bulbo dalla pianta del Tororo Aoi, capace di distribuire la fibra del Kozo in maniera omogenea nell’acqua, evitandone l’addensamento e dando vita ad una carta levigata e robusta.

Le innovazioni della tecnica di produzione riguardano la tecnica del nakashizuki: facendo uso di un telaio di setaccio era possibile stratificare più volte le fibre, in modo da aumentare la resistenza della carta. Il processo di lavorazione prevede un rituale antico, che si tramanda da generazioni.

La carta viene ottenuta immergendo le fibre del gelso da carta in acqua di fiume e vengono poi addensate e filtrate attraverso uno schermo di bambù.

Nella manifattura della washi le fibre delle piante impiegate sono pestate e tirate, piuttosto che macinate come nella produzione della carta “moderna”; questo procedimento contribuisce alla maggiore resistenza e flessibilità del prodotto finale. Le parti raccolte contenenti le fibre sono battute in acqua di fiume e raccolte in fasci di rafia. Dopo una notte a bagno, la rafia è sottoposta a bollitura e candeggiata naturalmente in acqua sotto il sole o con l’utilizzo di un agente chimico. Le impurità rimanenti sono trattate manualmente. La fibra viene sottoposta ad una ulteriore battitura e poi posta in vasche, dove, con una sorta di pettine viene stesa la mucillagine.

La mucillagine è l’elemento tradizionale per creare i fogli washi con il metodo antico e fa sì che le fibre siano mantenute sospese nella soluzione senza annodarsi tra loro. Quando il foglio bagnato raggiunge lo spessore voluto, lo schermo del tino viene liberato dalla struttura ed i nuovi fogli bagnati rimangono impilati uno sull’altro. Grazie alla mucillagine, i fogli possono essere separati facilmente, poiché nel corso della lavorazione si sono formati sottili film viscosi che li dividono. I fogli singoli vengono, infine, liberati dall’acqua con una pressa ad elica, appoggiati su materiali lisci, secchi e caldi per l’asciugatura.

La lavorazione del washi è un’artedelicata e complessa, ad essa si dedicano ormai solo pochi e anziani artigiani, alcuni dei quali sono nominati “tesori nazionali viventi”, il titolo concesso in Giappone a certi maestri di arti manuali, al fine di preservare le tecniche e le abilità artistiche in pericolo di esser perdute.

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Alunno/i autore/i dell’articolo:
EDOARDO SCIRE’
Classe e Anno: Argomento di Riferimento:
Prima D – 2017/18 CARTA
Dic 182018
 

La PIRAMIDE è una figura geometrica solida avente una base e un vertice.

La base è poligonale, quindi cambia forma a seconda della figura geometrica che la definisce (avremo quindi piramidi triangolari, quadrate, pentagonali, ecc.), mentre il vertice non giace sullo stesso piano della base. Unendo gli spigoli della figura di base con il vertice, si generano altre figure geometriche chiamate facce laterali che nella piramide sono tutte triangoli; quindi, una piramide avrà tante facce laterali quanti sono i lati della figura di base per cui una piramide a base triangolare avrà 4 facce, una di base e 3 in elevazione, mentre una piramide a base quadrata ne avrà 5, una di base e 4 in elevazione e così via.

In geometria, è definita un poliedro limitato da un poligono, detto base, e da tanti triangoli quanti sono i lati del poligono, tutti aventi un vertice in comune, detto vertice o apice della piramide. Si definiscono facce della piramide, la sua base e le facce laterali triangolari che convergono sull’apice.

Si definisce altezza della piramide, la distanza fra il suo vertice e il piano che contiene la base.

Gli spigoli che limitano il poligono di base si chiamano spigoli di base, mentre quelli che delimitano le facce laterali, si chiamano spigoli laterali.

Si definisce superficie laterale di una piramide, l’insieme delle sue facce laterali, e superficie totale l’insieme di queste e la superficie della base.

L’altezza comune a tutte le facce laterali di una piramide retta si chiama apotema della piramide.

Una piramide si dice retta quando nella sua base si può inscrivere una circonferenza il cui centro è il piede dell’altezza della piramide. Una piramide si definisce regolare se è retta e quando la sua base è formata da un poligono regolare.

TRONCO DI PIRAMIDE

Si chiama tronco di piramide, una piramide tagliata da un piano parallelo alla base. La base della piramide e il poligono generato dalla sezione prendono il nome di basi del tronco di piramide; avremo così una base maggiore che coincide con la figura di base della piramide  e una base minore che coincide con il piano di taglio. La distanza tra le due basi è detta altezza del tronco di piramide.

Un tronco di piramide si dice retto o regolare se è stato ottenuto da una piramide retta o regolare.
In un tronco di piramide regolare le facce laterali sono trapezi isosceli congruenti la cui altezza è detta apotema del tronco.

TIPOLOGIE DI PIRAMIDE

Di seguito alcuni esempi di piramidi regolari. Clicca sui links per approfondimenti.

PIRAMIDE TRIANGOLARE o TETRAEDRO
APPROFONDIMENTO
PROIEZIONI ORTOGONALI
ASSONOMETRIE
PROSPETTIVA
FIGURA BASE: TRIANGOLO
PIRAMIDE QUADRATA
APPROFONDIMENTO
PROIEZIONI ORTOGONALI
ASSONOMETRIE
PROSPETTIVA
FIGURA BASE: QUADRATO
PIRAMIDE RETTANGOLARE
APPROFONDIMENTO
PROIEZIONI ORTOGONALI
ASSONOMETRIE
PROSPETTIVA
FIGURA BASE: RETTANGOLO
PIRAMIDE PENTAGONALE
APPROFONDIMENTO
PROIEZIONI ORTOGONALI
ASSONOMETRIE
PROSPETTIVA
FIGURA BASE: PENTAGONO
PIRAMIDE ESAGONALE
APPROFONDIMENTO
PROIEZIONI ORTOGONALI
ASSONOMETRIE
PROSPETTIVA
FIGURA BASE: ESAGONO
PIRAMIDE OTTAGONALE
APPROFONDIMENTO
PROIEZIONI ORTOGONALI
ASSONOMETRIE
PROSPETTIVA
FIGURA BASE: OTTAGONO
PIRAMIDI NELLA STORIA

Il termine piramide deriva dalla parola greca pyramis cioè di una pietanza a base di grano che aveva la forma simile ad una piramide.

Gli esempi più importanti di piramidi nella storia sono sicuramente le costruzioni egizie a Giza nelle loro diverse espressioni e soluzioni, la cui funzione era quella di monumento funerario. Seguono, poi, le piramidi Maya che venivano invece utilizzate come templi religiosi. Soluzione moderna altrettanto famosa la ritroviamo a Parigi nel Louvre, dove una gigantesca piramide di vetro realizza l’ingresso al nuovo museo.

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RINGRAZIAMENTI

Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con la prof.ssa Carmela Milone docente di Matematica, nonché amica e autorevole voce scientifica scolastica.

Dic 122018
 

L’integrazione tra i robot e gli essere umani è sempre stata piuttosto complessa e anche difficile da realizzare, perché frutto di esperienze estemporanee e non di progetti di ampio respiro e a lungo termine. Inoltre, questo, è sempre stato visto, e molte volte a ragion veduta, come un pericolo per gli esseri umani perché capace di sostituirlo nel lavoro e quindi fonte di licenziamenti, riduzione di compenso, declassamento in ruoli meno importanti.

Ma le cose pare stiano cambiando; già la nuova generazione di robot, i cosidetti robot morbidi, sono il primo esempio di questo fenomeno. Ma un progetto italiano sta mirando oltre, alla creazione di un robot capace di cambiare forma, di prodursi energia da solo, realizzato con materiali tecnologicamente avanzati e rispettosi dell’ambiente, intelligente e capace di apprendere. Un robot frutto di un progetto unitario che abbraccia differenti aspetti che comprendono la sperimentazione, la progettazione, la realizzazione, per fare in modo che, questi automi, possano una volta per tutte entrare nella vita quotidiana di ciascuno di noi, nelle case, negli uffici, senza che gli uomini abbiano a temere per la loro presenza.

Il progetto si chiama “ROBOTICS” e partecipa ad una gara indetta dalla Commissione Europea che prevede un finanziamento da 1 miliardo di euro. La selezione dei finalisti avverrà a Vienna il 4 dicembre 2018 e il vincitore sarà individuato nel 2020.

La squadra italiana è composta da 800 esperti in robotica guidati da Cecilia Laschi della Scuola Superiore Sant’Anna e Barbara Mazzolai dell’Istituto Italiano di Tecnologia.

Il progetto non è semplicemente la realizzazione di un robot in grado di fare qualcosa, bensì un programma a lungo termine, strutturato, capace di integrare necessità non solo tecnologiche e scientifiche, ma anche sociali, culturali ed economiche. È importante, quindi, che il robot non entri nel mondo del lavoro sostituendosi all’uomo, bensì che lo integri in lavori complessi o particolarmente stancanti.

Il progetto, dovrà integrare ambiti finora slegati quali l’intelligenza artificiale, i big data, i materiali e la biologia e vari aspetti della vita sociale. Infine, bisognerà creare macchine capaci di adattarsi ad ogni tipo di esigenza, capaci di imparare e di migliorare.

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Dic 102018
 
ROMBO
Dati DIAGONALE MAGGIORE 12cm – DIAGONALE MINORE 8cm
Consegne Descrizione
Consegna 1 COSTRUISCI IL ROMBO DATE LE MISURE DELLE DIAGONALI
Consegna 2 COMING SOON
Digit Esegui le consegne in digitale utilizzando il CAD

DESCRIZIONE:

Strumenti da Disegno: foglio F4 liscio gr.220, matita 3H, squadrette, riga, compassonormografo.

Livello: classi seconde.

Difficoltà: bassa.

Descrizione: usando un foglio a quadri dal quadernone, effettuiamo la sua squadratura secondo lo schema appreso (vedi SQUADRATURA). Utilizzeremo l’area da disegno (quella gialla) per realizzare le esercitazioni indicate nelle “consegne“.

PROCEDURA OPERATIVA:

posizionando il foglio in orizzontale (ossia con il lato lungo verso di noi), procediamo nel seguente modo:

  • tracciamo la retta “r” orizzontale che divide in due parti uguali l’area da disegno.

  • tracciamo al suo interno un segmento AB di lunghezza pari alla diagonale minore.

  • puntando il compasso in B, con apertura AB, tracciamo un arco come in figura.

  • facciamo la stessa cosa puntando il compasso in A sempre con apertura AB.

  • tracciamo la retta passante per i punti 1 e 2 intersezione dei due archi precedenti.

  • puntiamo il compasso al centro degli assi e con apertura pari alla diagonale maggiore tracciamo una circonferenza completa che intersecherà l’asse verticale nei punti C e D.

  • uniamo i punti A, B, C e D tracciando così il rombo di diagonali AB e CD.

  • se si vuole si può riempire con una campitura regolare o con un retino adesivo la figura appena disegnata.

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Dic 092018
 

La bio-compatibilità oramai sta pervadendo tutti i settori commerciali, dai trasporti all’industria e sempre più spesso ci vediamo proporre soluzioni più “green” rispetto alle attuali. Sostituire la plastica con materiali meno inquinanti è oramai una priorità a livello mondiale soprattutto nei paesi più sviluppati e l’ultima trovata nel campo della moda ci arriva da Max Gavrilenko, un guru nel campo dell’ottica e delle montature per occhiali.

Si chiamano Ochis Coffee, si tratta di una montatura per occhiali basata su concetti di sostenibilità ed innovazione. La struttura è ricavata da sostanze totalmente biodegradabili, un bio-polimero ottenuto dal caffè, dal lino e dall’olio naturale di soia. Questa sostanza è in grado di decomporsi in un periodo di tempo 100 volte più rapido dei classici occhiali ottenuti in materiale plastico, potendo addirittura diventare fertilizzante per il terreno. La loro biodegradabilità non deve trarre in inganno, perché questi occhiali sono in grado di resistere tranquillamente sia all’acqua che al sudore umano.

Ovviamente ciò che viene utilizzato non è il caffè che noi prendiamo in tazzina o quello con il quale prepariamo la famosa bevanda, bensì i suoi fondi, quindi scarti che, vengono miscelati insieme alla segatura di lino ed a un olio ricavato dalla soia. Questa miscela rende questi occhiali particolarmente piacevoli al tatto oltre a conferirgli il classico aroma di caffè che, in campo fashion, fornisce un ulteriore elemento attrattivo nei riguardi di questo prodotto.

Max Gavrilenko, ha disegnato per la campagna che egli stesso ha avviato su Kickstarter, ben otto modelli differenti di montatura, così da proporre soluzioni fashion diverse e maggiori opzioni di scelta per i futuri clienti.

Queste montature si contraddistinguono per l’estrema leggerezza e la grande resistenza delle quali sono dotati, si pensi che sono stati fatti test di caduta da oltre 3 metri di altezza, e hanno una durata garantita di circa cinque anni. Il bio-polimero rende, inoltre, particolarmente elastici ed adattabili, le montature ai diversi formati di viso.

Il costo previsto al lancio di questi occhiali è compreso tra i 69 e i 120 dollari.

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Dic 072018
 

Fino a questo momento uno dei più grandi problemi dei cellulari moderni è stata la durata della loro batteria. Dopo al massimo 24 ore questa, per quanto nuova, dovrà necessariamente essere ricaricata, pena l’impossibilità di utilizzare il dispositivo.

Una ricerca, attualmente in corso da parte del Jet Propulsion Laboratory e dell’Istituto di Tecnologia della California (Caltech), per conto della NASA, sta sperimentando l’utilizzo del fluoruro, come carica negativa all’interno delle batterie per i dispositivi mobili. Dai risultati sperimentali, è risultato un sistema capace di durare otto volte più lungo delle batterie a ioni di litio attuali.

Il problema sorge nell’utilizzo di questo materiale che risulta essere difficile da lavorare e molto corrosivo oltre che reattivo. Il professor Robert Grubbs, Premio Nobel per la chimica nel 2005 che si sta occupando della ricerca, spiega che i primi risultati sono molto positivi e promettenti anche se c’è ancora molta strada da fare.

Altre volte si era tentato di utilizzare il fluoruro in combinazione con componenti solide, ma questo connubio funzionava solo a temperature elevate rendendo inutilizzabili tali sistemi.

Questa volta è la prima volta che una batteria al fluoruro ricaricabile riesce funzionare a temperatura ambiente. Queste batterie funzionano spostando atomi carichi chiamati ioni dal polo positivo a quello negativo e viceversa per la ricarica. Il professor Jones Simon che ha partecipato al progetto, ha affermato di aver ottenuto risultati positivi dello spostamento di atomi di fluoro carichi negativamente. Ciò che ha permesso di raggiungere questo incredibile risultato, cioè di far spostare gli ioni di fluoro a temperatura ambiente, è stato un nuovo liquido chiamato BTFE capace di mantenere il fluoruro stabile.

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Dic 052018
 

Ne abbiamo parlato un po’ di tempo fa, quando la società Liquidametal Tecnologies, divenne improvvisamente nota per l’acquisizione delle sue tecnologie da parte del colosso americano dell’informatica Apple Inc (LIQUIDMETAL il METALLO LIQUIDO DI APPLE). A distanza di qualche anno, questa tecnologia inizia ad essere matura per il mercato e per l’elettronica di consumo. La società che ha brevettato il progetto, ha finalmente portato a compimento la realizzazione di apparecchiature specializzate per lavorare questi metalli come si trattasse di polimeri plastici.

Innanzitutto vediamo di capire cos’è un metallo liquido. La definizione potrebbe trarre in inganno perché in realtà anche questi metalli, o meglio leghe metalliche ottenute miscelando zirconio, titanio, rame, nichel e berillio, si trovano allo stato solido in condizioni normali. La definizione liquido, deriva dalla loro struttura molecolare. Infatti, i metalli come molti altri materiali in natura, hanno una struttura cristallina ossia con le molecole disposte secondo uno schema ordinato. Al contrario, quando sono fusi, le molecole si dispongono in maniera casuale, disordinata, esattamente come accade nei polimeri plastici o nel vetro. Ecco perché, vengono anche chiamati metalli amorfi o metalli vetrosi. Si definisce amorfa una struttura casuale, priva di ordine. Ma come facciamo ad ottenere questa struttura disordinata visto che stiamo lavorando con dei metalli che invece hanno una struttura cristallina? Il segreto sta nel processo di produzione: in pratica, si porta il metallo a temperatura di fusione e lo si raffredda molto rapidamente con getti di acqua gelida facendo di subire uno shock termico di 1000°C in pochi minuti. In questo modo si congela la struttura casuale che il metallo possiede in quell’istante, creando un nuovo materiale con struttura molecolare disordinata come se fosse ancora liquido.

Quali i vantaggi di questa tecnologia? Enormi. Questa nuova struttura rende il metallo liquido molto più resistente, si parla del doppio di un buon acciaio, con una durezza superiore a quella del titanio e cosa straordinaria, associa a questa incredibile resistenza una elasticità cinque volte superiore a quella dell’acciaio. Inoltre, questi materiali si contraddistinguono per un peso specifico basso, grande resistenza alla corrosione, ottime capacità di saldatura e possibilità di essere lavorate per stampaggio ad iniezione, cosa assai rara se non impossibile per i normali metalli. Inoltre, questa tecnica da una perfetta finitura superficiale che non richiede ulteriori trattamenti secondari, ottenendo risparmi economici e di tempo.

Questa tecnica è stata messa a punto da Engel, un colosso austriaco nel campo della lavorazione dei metalli, che ha realizzato le infrastrutture e macchinari necessari alla realizzazione di questo processo, notevolmente diverso da quello utilizzato per le materie plastiche. Infatti questo macchinario non ha la classica vite-cilindro come sistema di fusione e iniezione, bensì una camera in cui viene inserito il lingotto che sarà fuso da uno speciale sistema di riscaldamento a induzione in un ambiente senza aria, per impedire la formazione dei cristalli e garantire la produzione di leghe amorfe.

Il vantaggio di questa nuova tecnologia consente l’abbassamento dei costi, trattamento superficiale del metallo particolarmente fine, miglioramento del limite elastico del metallo in allungamento, fase di processo unica, nessun ulteriore trattamento termico atto a migliorare la durezza e la resistenza meccanica, nessuno scarto di processo.

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