Gen 082019
 

La dislessia, è un disturbo che inficia la capacità di leggere e scrivere in modo corretto e fluente. Come ho già scritto nella nostra sezione specifica B.E.S & D.S.A., questo non dipende da deficit cognitivi o problemi neurologici. Ha origini neurobiologiche.

Per facilitare i bambini nello svolgimento di queste attività, sono necessari testi chiari e semplificati. E’ previsto un aggiornamento della normativa in tal senso e l’iter parlamentare è già iniziato. Ma quali sono le indicazioni che la scienza fornisce in merito ai testi per uso scolastico per alunni dislessici? Non credo sia necessario un dizionario denso di indicazioni e non credo neanche che sarò ripreso da qualche esperto grafologo se do’ qui alcune semplici indicazioni che potranno aiutare tutti durante la nostra attività quotidiana di docenti.

Per comprendere cosa significa vivere con la dislessia, il designer inglese Dan Britton, ha realizzato un carattere tipografico che cerca di imitare quello che vedono i dislessici davanti a un testo scritto. Britton ha eliminato il 40 per cento di ogni lettera, compresi alcuni elementi chiave. Il font non mostra realmente cosa vede un dislessico, ma rende più difficile la lettura a chiunque in modo da potersi immedesimare nelle sue problematiche.

Font di Dan Britton

Sulla base di tutto ciò, per realizzare un testo più semplice da decodificare, bisogna partire innanzitutto dal font, ossia dal carattere da utilizzare. Esiste una vera e propria cultura che riguarda le migliaia di fonts sviluppati in questi anni. Si dividono essenzialmente in due categorie, serif e sans serif, ossia con grazie e senza. Le grazie non sono altro che quei prolungamenti ai margini del carattere per renderlo, appunto, più elegante, più aggraziato.

Evidentemente, per rendere un testo più leggibile è decisamente meglio scegliere caratteri sans serif perché hanno un aspetto più lineare e più semplice da decifrare. Ad esempio, Verdana, Arial, Helvetica e Comic Sans.

L’esempio qui sopra, mostra la differenza di leggibilità di un testo al cambiare del font utilizzato. Nel primo caso massima leggibilità utilizzando un font bastone (sans serif), nel secondo caso una media leggibilità in quanto il font presenta i prolungamenti delle grazie, nel terzo caso grande difficoltà di lettura per un font che personalizza le lettere. Ovviamente da evitare assolutamente font in corsivo o handwriting, cioè quelli che simulano la scrittura a mano libera come nell’esempio qui sotto.

La dimensione minima non può scendere al di sotto dei 12-14 punti che sono ideali per una lettura corretta da parte di tutti. Inoltre, il distanziamento tra le righe, chiamato interlinea, non deve essere inferiore ai 1,5 – 2,0 righe. Inoltre, meglio non scrivere frasi molto lunghe ma ridurle a non più di 60-70 caratteri con paragrafi brevi che spezzano la narrazione.

Meglio mettere in evidenza le parole chiave del discorso, sottolineate o in grassetto, quasi a creare un mappa concettuale dell’argomento.

Meglio l’allineamento a sinistra del testo e la suddivisione in elenchi puntati o numerati evitando concetti troppo lunghi.

La carta da utilizzare deve essere opaca ed è meglio non stampare font chiari su supporti scuri. Il colore ideale della carta è bianco crema con peso del supporto non inferiore a 80-90 grammi, ossia un medio cartoncino.

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Ott 122016
 

Aero01

Dalla fantasia e dalla creatività dello studio Pininfarina, dal nome del grande designer italiano, nasce il concept di una nuova matita capace di superarne i limiti.

Aero02Innovazione, tecnologia, nuovi materiali, design, sono condensati in un oggetto che innova a partire dalla forma. Una commistione tra il vecchio design della matita e le forme più complesse di una penna stilografica.

La matita, si sa, fatta di grafite, lascia un segno più o meno netto in base alla mescola di cui è composta la sua mina, mentre la penna è soggetta, nel migliore dei casi, a continue sostituzioni delle cartucce o dell’inchiostro, o come la vecchia, ma immortale BIC, ad essere gettata nel cestino dei rifiuti una volta esaurito l’inchiostro.

Il concept prende il nome di AERO ed è una via di mezzo tra matita e penna. Scolpita con le classiche linee curve del famosissimo brand, AERO è realizzata in Ethergraf, una lega di metalli tutta italiana; infatti è della Napkin questa miscela metallica capace di lasciare un segno sul foglio di carta, morbido come quello di una matita e indelebile come quello di una penna senza doversi preoccupare di ricariche o di dover temperare.

Aero05

L’idea è quella di poter scrivere all’infinito senza dover preoccuparsi di nulla se non del segno. La forma stessa della penna-matita, forgiata con alluminio aerospaziale con profili affusolati e ritorti su se stessi, disegna già il simbolo dell’infinito.

Completa questo capolavoro di design, il supporto realizzato in cemento, capace di evocare incredibili contrasti materici tra la sua semplicità e la complessa geometria della penna-matita.

Il costo non è indifferente, ma facendo riferimento a penne stilografiche o matite d’autore, la cifra di 120 euro la si può ritenere congrua pensando che questo strumento ci accompagnerà graficamente per sempre.

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Lug 102013
 

Ogni anno, mese, giorno, casualmente o regolarmente, si possono raccogliere i frutti del lavoro, della passione e dell’impegno profusi nell’insegnamento e nella disciplina. Penso che insegnare significhi trasmettere qualcosa che non siano solo meri contenuti; significa saper instillare il piacere della ricerca, la passione nella scoperta e fornire gli strumenti per raccontare al meglio quanto ottenuto. E di tanto in tanto si raggiungono livelli di completezza e ricchezza come quelli che troverete in questo articolo su un materiale antico ma ancora molto usato e nobile come la carta. Una ricerca narrata con approfondimento e passione da Alessandro Marcellino che, vi esorto a leggere con attenzione e piacere come ho fatto io. Buona lettura.

LA CARTA UN MATERIALE ANTICO

bambuSecondo la tradizione cinese, la carta fu inventata nel 105 d.C. dal marchese Ts’ai Lun. Scoperte archeologiche recenti hanno però dimostrato che già era usata in Cina a partire dal II sec. a. C. Nei tempi più antichi, i Cinesi scrivevano su canne di bambù e su seta. Proprio alla seta si deve la fabbricazione della carta. Non a caso, l’ideogramma cinese che rappresenta la carta, secondo un antico dizionario che risale al 100 d.C., rappresenta proprio un filo di seta intrecciata. In effetti la corteccia del gelso, la pianta sulla quale vivono i bachi da seta, sarà una delle prime materie usate per la fabbricazione della carta in Cina. Non a caso la parte interna della corteccia è chiamata libro. L’antica tecnica orientale di fabbricazione della carta è ancora oggi usata in Nepal. Il procedimento cinese prevede l’uso di componenti tessili mescolati a risorse locali (gelso, canapa, bambù, riso ecc..). La carta alla cinese si diffuse fuori dei confini dell’Impero, e intorno al X secolo d.C. raggiunse l’Asia centrale e l’Indocina; era anche meno costosa della seta. Nel III secolo d.C., grazie alla Corea, la carta si diffonde anche in Giappone. Dal IX secolo la produzione della carta diviene industria nazionale giapponese. E’ materiale così importante che finisce per avere anche un valore monetario. A partire dal XIX secolo i giapponesi chiamano la loro carta washi (che vuol dire “carta giapponese”), per distinguerla da quelle occidentali e cinesi, di composizione diversa. Fin dal VI secolo il Medio Oriente fa uso di carta, che importa dalla Cina e dai paesi dell’Estremo Oriente. Tuttavia il supporto più usato restava la pergamena. Nel 751 i musulmani conquistarono Samarcanda, facendo prigionieri alcuni cinesi fabbricanti di carta, che rivelarono ai conquistatori il segreto della fabbricazione. Proprio Samarcanda divenne il primo grande centro di produzione della carta.

Carta Cina

L’esatta origine della parola carta, almeno per quanto riguarda quella che utilizziamo noi non si sa, anche se potrebbe derivare dalla parola latina charta o da quella greca charassò che significa scolpire, incidere. In lingue come l’inglese la parola carta diventa paper e deriva dal famoso papiro egizio che venne poi sostituito dalla pergamena, fatta da pelli di animali. Giunta nel XII secolo ed importata da Damasco o dall’Africa, la carta non ebbe inizialmente molto successo, tanto che ne fu proibito l’utilizzo in Italia. Essa però continuerà ad essere prodotta fino a quando nascerà la prima industria della carta a Fabriano, città vicino Ancona nelle Marche. Ancora oggi in questa città vengono prodotti quaderni, album e tanti tipi di carte, utilizzati nelle scuole ed in uffici pubblici e privati. Nel corso dei secoli sono state inventate numerose macchine per la sua fabbricazione ed introdotti elementi naturali e non, per rinforzarla e renderla così più robusta.

LE MATERIE PRIME

Fibre-cellulosaLa maggior parte della carta comune di oggi è formata da una certa quantità di cellulosa ed emicellulosa che non sono altro che le fibre del legno, unite attraverso la lignina, una interfibra che tiene unite cellulosa ed emicellulosa. Ovviamente la carta oggi può essere prodotta anche attraverso la carta riciclata, opportunamente raccolta e lavorata. La diversa combinazione delle fibre, lunghe o corte, delignificate o contenenti ancora lignina, fa la differenza  fra i diversi tipi di carte o cartoni che si otterranno. Non va dimenticata comunque l’importanza delle cariche minerali che, pur non concorrendo a conferire resistenza al foglio di carta, ne costituiscono sino al 50% in peso (carte patinate), conferendo alla carta maggior lucentezza, brillantezza e stampabilità.

La distinzione più elementare della cellulosa utilizzata per la produzione della carta è quella già citata sopra ed esattamente:

  1. fibre lunghe, provenienti in massima parte da legni di resinosi (pino, abete, larice);
  2. fibre corte, provenienti da legni di latifoglia (faggio, betulle, eucaliptus, pioppo).

Le sostanze minerali di carica più usate sono invece:

  1. carbonato di calcio, ricavato macinando finissimamente scarti della lavorazione o dell’estrazione del marmo;
  2. caolino, proveniente da cave;
  3. talco, anch’esso di cava.

Le fibre vegetali provengono in massima parte dal legno, anche se possono essere ricavate da piante annuali quali la paglia di grano o di riso, le canne, lo sparto, la canapa, il lino, il kenaf, ecc. L’utilizzo industriale di tali piante è oggi nuovamente alla ribalta ed oggetto di studio e di ricerca nonostante fosse stato praticamente abbandonato per via delle caratteristiche scarsamente “industriali” di estrema stagionalità e per la difficoltà nella depurazione delle acque reflue.

Per produrre paste cartarie si utilizza quasi esclusivamente legname di recupero ed a basso costo, cioè:

  1. scarti di altre produzioni quali segherie, fabbriche di imballaggi o mobili;
  2. tronchi di piccola pezzatura e comunque non utilizzabili per lavorazioni qualitativamente superiori.

Per quanto concerne la parte di legname, quantitativamente meno consistente, che proviene da foresta, occorre considerare che si tratta sempre o dell’utilizzo di sottoprodotti (alberi non adatti alla segagione, cime di piante più grandi, ecc.) oppure proveniente da piantagioni di alberi a rapida crescita (6-8 anni) messi a dimora proprio ad uso industriale. A tale proposito è opportuno ricordare che le importantissime funzioni di scambio e di trasformazione (da anidride carbonica ad ossigeno) svolte dalle foreste giovani in accrescimento non sono nemmeno paragonabili a quelle di una foresta matura che, avendo rallentato il ciclo vitale, ha un rapporto di scambio (anidride carbonica-ossigeno) decisamente più limitato e tendente al pareggio tra l’ossigeno consumato e quello prodotto.

La lignina, essendo il collante naturale che tiene unite le fibre, è la sostanza sulla quale si deve agire per separare le fibre da utilizzare per scopi cartari. Il diverso modo di affrontare industrialmente la lignina e quindi di separare le fibre vegetali dà luogo alla distinzione fra i tipi di fibre cartarie:
  1. cellulose;
  2. paste semichimiche;
  3. paste chemitermomeccaniche o chemimeccaniche;
  4. paste meccaniche.

LE CELLULOSE

Si possono avere cellulose provenienti da conifere (fibra lunga) o da latifoglia (fibra corta). Per produrle, il legno, scortecciato e ridotto in pezzetti (chips) per facilitare l’impregnazione, viene sottoposto ad un attacco di sostanze chimiche:

  1. in ambiente alcalino (idrato di sodio): per ottenere cellulosa al solfato o Kraft (dal tedesco forte) con elevate caratteristiche meccaniche e quindi adatte all’impiego nella fabbricazione degli strati esterni del cartone ondulato, nelle carte da imballo e comunque in tutti i tipi di carta in cui è necessaria una buona resistenza;
  2. in ambiente acido (solfito): per ottenere cellulose dette al solfito. Tale cottura viene fatta con immissione di vapore ad alta temperatura, in modo da sciogliere tutta la lignina per via chimica e liberare così le fibre di cellulosa con un modestissimo lavoro meccanico tramite raffinatori a disco.

La raffinazione è un processo duplice di compressione e di sfregamento cui sono assoggettate le fibre che, così elementarizzate, vengono poi lavate, assortite per eliminare eventuali fasci di fibre incotte od altre impurità e quindi convogliate nelle torri di imbianchimento dove, tramite processo di ossidazione con cloro o più recentemente, con acqua ossigenata (meno inquinante), le fibre sono sbiancate per essere utilizzate in carte bianche. Il liscivio di cottura viene concentrato per recuperare i prodotti chimici in esso disciolti e la lignina che sotto forma di lignin solfonato è utilizzata anche come collante per la produzione di pannelli truciolari. Le acque reflue sono depurate tramite depuratore anaerobico o bruciate per produrre vapore nel caso la lignina non sia stata prima estratta.

La resa in fibra delle cellulose, fatto 100 un kg di legno secco, è del 40-45%. Le caratteristiche cartarie della cellulosa sono ottime dal punto di vista qualitativo, sia come resistenze meccaniche che come grado di purezza e di bianco raggiungibile. Le carte di pura cellulosa sono quasi illimitatamente durevoli nel tempo e, non contenendo lignina, ingialliscono in modo trascurabile.

LE PASTE SEMICHIMICHE, CHEMITERMOMECCANICHE e MECCANICHE

Sono prodotte partendo da chips prevalentemente di latifoglia (faggio e pioppo) ed il ciclo produttivo non si discosta molto da quello descritto per la produzione di cellulosa. La differenza fondamentale sta nel fatto che la lignina e le sostanze incrostanti non vengono completamente sciolte in quanto l’attacco chimico con solfito di sodio (cottura), è solo parziale; la resa, partendo dal kg di legno secco, si aggira sul 60% e la fibra di cellulosa è ancora parzialmente lignificata. Le paste semichimiche hanno caratteristiche qualitative intermedie e non ben definite fra quelle delle cellulose (paste chimiche) e quelle delle paste ad alta resa (paste meccaniche, chemitermomeccaniche e chemimeccaniche), se consideriamo anche gli alti costi di produzione e di depurazione in relazione alla bassa resa capiamo perché si sta gradualmente abbandonando questo metodo produttivo. Le paste semichimiche trovano comunque il loro impiego nella produzione di carta da giornale, da stampa, nel cartone ondulato, ecc.

FABBRICAZIONE DELLA CARTA
Descrivere in poche righe il complesso processo di fabbricazione della carta è impresa impossibile se il tutto non viene generalizzato ed  semplificato. Innanzitutto ogni azione (processo) che genera un risultato o un prodotto si basa su 4 elementi fondamentali:
  • chi la compie;
  • gli strumenti necessari per compierla;
  • gli ingredienti o le sostanze (anche quella grigia) che vengono manipolate;
  • i soldi necessari per procurarsi il tutto.

Ogni processo inoltre, sia esso semplice o complicatissimo, consta di:

  • una fase di studio (ricetta o formulazione del progetto);
  • una fase preparatoria (miscelazione ingredienti o materie prime ed adeguamento e scelta dei mezzi o degli impianti necessari);
  • una fase produttiva;
  • una fase di finitura e di allestimento;
  • la realizzazione finale;
  • i controlli relativi ad ogni fase.

Anche la fabbricazione della carta è riconducibile perciò ad uno schema semplice nelle sue linee generali. La complessità nasce dal numero delle fasi che compongono il processo, dagli impianti, specifici per ogni fase, dalle dimensioni in gioco e dalla necessità di amalgamare correttamente il tutto.

Attualmente il processo di fabbricazione della carta consiste in questi passaggi:

  • Preparazione fibre vegetali (pulping)
  • Sbiancamento delle fibre stesse (bleaching)
  • Formazione foglio con pressatura
  • Trattamenti superficiali diversi
  • Essiccamento carta.

Vediamo ora di approfondire, ma non di molto, la conoscenza di alcuni momenti che caratterizzano il processo.

DAL PASSATO AL PRESENTE

Lavorazione-carta

La produzione pre-industriale

I primi supporti cartacei, in Italia, vedono la luce nella prima metà del XIII secolo ed il lavoro dei primi cartai meglio può assomigliare al lavoro artigianale del cuoco dell’esempio precedente. Gli stracci, materia prima basilare, vengono raccolti, cerniti e lavati prima di essere tagliati e quindi sfilacciati, in acqua, mediante un’azione meccanica di battitura (lavorazione”) nelle “pile a martelli”. Con la sospensione di stracci tagliati, sfilacciati e battuti in acqua, (la pasta”, si riempiono dei “tini” dai quali l’artigiano cartaio riesce a far depositare uno spessore regolare di fibre su di un setaccio a maglie molto fini, (“a forma”, e a prelevarlo quindi, sotto forma di foglio, per compattarlo ed iniziare ad asciugarlo prima pressandolo sotto un torchio e, quindi, appendendolo ad apposite attrezzature (gli asciugatoi), all’aria. Sono tuttora i momenti salienti della produzione della carta. Una importante innovazione nella “lavorazione” degli stracci è costituita dall’impiego della tina “olandese”, che sostituisce le vecchie “pile”. Lo scopo è sempre quello di tagliare e sfilacciare e sfibrillare la pasta di straccio, (e, quando non ci sarà più lo straccio, la cellulosa), ma con una potenzialità maggiore unita ad una maggior governabilità e flessibilità della macchina.

La produzione industriale

I vari momenti della produzione rimangono però separati sino alla nascita della “macchina continua“, che segna l’inizio della fase industriale e permette la formazione ed il distacco “in continuo”, da un forma rotonda, di una benda di carta teoricamente senza soluzione di continuità. Si realizza inoltre, in un’unica e continua fase, il compattamento e la pressatura della benda ed il suo asciugamento. Si riesce così a realizzare in continuo delle bellissime filigrane in chiaro-scuro, che si ripetono sempre nella medesima posizione del foglio (filigrana fissa) e delle carte che simulano i fogli ottenuti con la vecchia “forma” a mano, tanto che la nuova macchina, accanto alle denominazioni “macchina o forma in tondo”, viene chiamata anche “manomacchina”. Nel tempo la forma in tondo lascerà spazio alla “tavola piana”, che permetterà grandi formati e velocità assai elevate, ma non potrà più ripetere e nemmeno imitare le riproduzioni di visi o figure simili a bassorilievi, tanto abituali a chi ha lavorato sulla simpatica e vecchia “tamburella”. Un ulteriore passo avanti nella “continuità” del ciclo produttivo si realizza con l’introduzione dei raffinatori in continuo, che soppiantano la vecchia “olandese” con rendimenti decisamente superiori. Ma se ripercorriamo il lavoro del “prenditore” e del “ponitore”, i vecchi artigiani cartai che producevano un foglio alla volta con la “forma” a mano, e confrontiamo i vari momenti del loro impegno con le attuali fasi produttive ci imbatteremo in uguali percorsi ed uguali esigenze. Vediamo allora di ritrovare, sugli impianti moderni, le fasi che caratterizzavano il lavoro dei primi cartai; servirà per meglio identificare i particolari settori delle attuali linee produttive, settori che andremo ad esaminare più avanti un po’ più in dettaglio.

Produzione carta

Il lavaggio degli stracci non si ritrova logicamente più, ma l’operazione di lavaggio della materia prima è tuttora ben presente nella produzione delle paste chimiche e delle paste di legno. Il legno da introdurre nei bollitori o nelle torri di impregnazione subisce un primo lavaggio, per liberarlo dal terriccio o da altre impurità. Una volta trattato viene passato ai tamburi lavatori per essere ripulito dal liscivio e dai sali che questo ha disciolto.

La cernita è tuttora presente sia come scelta del tipo di essenza fibrosa idonea agli obiettivi del fabbricante di paste e del cartaio, sia come eliminazione di corpi estranei (ferro, sabbia, plastica) e di materiale non idoneo (incotti, grumi, schegge, grossolani). Attraverso il tempo i plotoni di donne, che sceglievano (ed epuravano) gli stracci su delle specie di setacci a maglie grosse, vengono sostituita dal sabbiere e dalle calamite distribuite sul fondo dello stesso ove, per gravità e per l’effetto magnetico, si depositano le parti pesanti come sabbia, pietrisco, scheggette e polvere di ferro, e dal tamburo epuratore-assortitore, generalmente a fessure. Oggi queste parti di macchina vengono sostituite dagli attuali epuratori (cleaners) atti a scartare le parti pesanti, dai moderni assortitori a fori e/o a fessure (screen), che impediscono il passaggio di parti grossolane e costituiscono un’ulteriore salvaguardia per l’incolumità dei corredi di macchina e per la qualità del prodotto, e dai vibrovagli. La porzione d’impianto compresa tra la tina di macchina e la cassa d’afflusso prende il nome di testa macchina. Gli stracci, una volta lavati ed assortiti, subivano un’azione di sbatacchiamento, taglio e sfilacciatura, in presenza di molta acqua, nelle pile a martelli e venivano quindi stoccati in tini, dai quali il maestro cartaio li prelevava per “alimentare” la sua “forma” a mano.

MACCHINA-PIANA

L’operazione di taglio, sfilacciatura e idratazione, fondamentale per l’ottenimento di un foglio resistente ed uniforme, veniva chiamata “lavorazione” ed il termine è tuttora ricorrente, in cartiera, accanto al più usato “raffinazione”. Anche oggi le fibre sospese in acqua vengono sbattute, tagliate, idratate, sfilacciate e trasferite quindi in capaci tine dalle quali, in continuo, vengono prelevate per essere trasformate, dalla macchina continua, in foglio di carta. I maestri cartai, il “prenditore” ed il “ponitore”, disponevano di una tinozza, il “tino”, nella quale disperdevano la quantità di fibra opportuna basandosi sulla loro grande ed abituale esperienza, di un setaccio a maglie fini, “la forma”, di un “torchio” e di uno “stenditoio” al quale appendere ad asciugare i fogli, dopo la pressatura. Il “tino” può essere ora rappresentato dalla “cassa d’afflusso”, ove le fibre sono mantenute in sospensione ben separate tra di loro, ad una densità costante, prima di venire distribuite uniformemente sulla “tavola piana”, l’attuale “forma”.

Le presse, nella parte di macchina successiva alla tavola piana, preasciugano e compattano il foglio in modo simile al vecchio “torchio”, mentre la successione di cilindri essiccatori, riscaldati a vapore, può essere assimilata al vecchio “stenditoio”. Queste brevi note hanno lo scopo di aprire un’ulteriore finestra sui momenti caratteristici del processo produttivo, in modo da rendere meglio comprensibile l’ulteriore approfondimento che andremo ad affrontare. Ricordiamo ancora che questa scheda introduce delle nozioni elementari ed è quindi volutamente semplice, spesso incompleta e carente di informazioni in dettaglio, in quanto vuole solamente soddisfare un’eventuale curiosità di chi quotidianamente utilizza la carta come strumento per comunicare, studiare e diffondere idee, conoscenze e cultura.

SPAPPOLAMENTO E RAFFINAZIONE

Le essenze fibrose previste dalla ricetta d’impasto vengono spappolate in acqua mediante una apposita macchina (Pulper). Le fibre, per effetto dell’acqua, si rilasciano e si ammorbidiscono diventando pompabili. Vengono stoccate in tine, in attesa di subire un trattamento atto a sviluppare quelle caratteristiche di resistenza e macchinabilità già insite nei tipi di essenze scelte (raffinazione). L’impasto raffinato viene quindi dosato assieme ad altri componenti, nelle proporzioni previste dalla ricetta.

Alla base della fabbricazione della carta sta il fenomeno della feltratura: le fibre vegetali ridotte in pasta e sospese in acqua, si saldano fra loro per formare un foglio. Le materie prime un tempo costituite esclusivamente da stracci di canapa, cotone e lino, sono oggi prevalentemente fibre di cellulosa dei vegetali, legni bianchi e teneri (come abete, betulla, pioppo, faggio), paglia, ginestra, canna comune, ecc. Tutte queste materie prime non vengono però sottoposte al medesimo trattamento. La raffinazione sottopone la fibra ad una serie di sbattimenti e compressioni che consentono all’acqua di imbibirne sempre di più le fibrille interne rendendola sempre più plastica; questa aumentata plasticità consente la formazione di un maggior numero di aree di contatto, e quindi di legami, indispensabili per una buona resistenza e formazione del foglio. La raffinazione, se inidonea o troppo spinta, produce anche altri effetti non sempre desiderabili ed opportuni (smodata lacerazione della parete, accorciamento esagerato della fibra, eccessiva idratazione) sulle fibre di cellulosa; la violenza dell’urto delle lame del raffinatore non deve essere tale da devastare la superficie ad ogni colpo e poiché le caratteristiche morfologiche e chimico-fisiche delle fibre sono peculiarità proprie di ogni tipo di essenza (abete, pino silvestre, pino del sud, pino della costa del pacifico, faggio, eucaliptus, ecc.) si intuisce l’opportunità di raffinarle in modo selettivo (raffinazione separata), per non rovinare una fibra lunga che può darci una carta tenace e porosa, ma rendendole plastiche ed in grado di creare, su tutta la loro integra lunghezza, un numero elevato di legami. Se si insiste con la raffinazione per esaltare le caratteristiche meccaniche di resistenza alla trazione, accanto a questa dovremo accettare una minor resistenza alla lacerazione.

All’impasto fibroso raffinato vengono aggiunte sostanze che conferiscono al prodotto finito altre caratteristiche:
  • la colla e l’allume per dare una certa resistenza alla bagnatura o per regolare un assorbimento eccessivo di inchiostro per scrivere, impedendone il trapasso e la sbavatura;
  • le sostanze di carica per conferire alla carta opacità, maggiore levigatura, migliore stampabilità.
PATINATURA

Patinatura

L’idea di coprire la superficie di un foglio di carta con dei pigmenti minerali di ridotte dimensioni particellari per ottenere una miglior brillantezza ed uniformità di stampa, un bianco più elevato, una lisciatura superiore ed una possibilità di “lucidatura” altrimenti irraggiungibile, nasce e trova applicazione in Italia intorno agli anni ’20. È indubbiamente un’idea vincente, con risvolti economici positivi e, all’inizio, non completamente prevedibili, tanto che ai nostri giorni poche sono le cartiere che non adottano questa tecnologia. L’operazione di stendere con uniformità, sulla superficie di un foglio, una miscela di pigmenti (patina) è chiamata ” patinatura”, e “patinatrici” sono dette le macchine che la rendono possibile. È abbastanza intuibile che uno strato di soli pigmenti, una volta asciutti non rimarrebbe attaccato alla superficie del foglio e basterebbe una qualsiasi azione meccanica, uno sfregamento, una piegatura, una stropicciatura, per staccarlo a pezzi o sotto forma di polvere; la carta sarebbe inutilizzabile. Bisogna, in qualche modo, “legare” tra loro i pigmenti e legare questi alla superficie del foglio ricorrendo all’impiego di sostanze idonee allo scopo, i cosiddetti “leganti”. Volendo quindi meglio definire la patina, diremo che questa è una miscela di pigmenti e leganti, avente un contenuto in solidi ben definito e la tinta desiderata, idonea ad essere uniformemente distribuita sulla superficie di un supporto cartaceo. Accontentiamoci di questa definizione che, sotto il generico termine “idonea”, nasconde problemi di reologia e ritenzione in rapporto alla velocità di applicazione ed al tipo e grammatura di supporto. Al giorno d’oggi, nella maggioranza dei casi, quando si parla di pigmenti si intende parlare di carbonato di calcio e di caolino; qualche cartiera, ma non molte, impiega ancora il bianco-satin mentre sta crescendo l’impiego, nelle carte per rotocalco, del talco. Un tempo il pigmento principe era il caolino e l’impiego del bianco-satin era più diffuso, ma erano impiegati anche il solfato di bario (bianco-fisso) e la farinafossile. Il biossido di titanio ha sempre avuto un impiego limitato in applicazioni e tipi di carta particolari. Agli inizi della patinatura il legante classico era la caseina lattica, sposa ideale del bianco-satin con cui dava patine fluide, microporose e con eccezionali resistenze ad umido. L’unione con il caolino era invece estremamente “conflittuale” ed originava degli shock reologici con innalzamenti vertiginosi della viscosità tanto che non era eccezionale il verificarsi del bloccaggio delle pale dell’impastatrice per la tenacità del pastone caolino-caseina che si formava. Un tempo, infatti, si usava preparare la patina partendo dal caolino in polvere ed impastandolo con una soluzione alcalina di cascina in una vera e propria impastatrice, sicché questa somiglianza al mondo dei panettieri e dei pastai, unita al ricettario spesso volutamente misterioso, può essere l’origine del nome “cucina”, dato ancor oggi al reparto ove viene preparata la patina. Ora i leganti principe sono i lattici, soprattutto a base stirene butadiene e/o a base acrilica, seguiti dall’amido e, in misura minore, le proteine vegetali e l’alcool polivinilico. Poiché, quando si parla di patinate, ci si immagina quasi sempre una carta lucida, è interessante sapere che la propensione di una carta patinata a “lucidarsi” è dovuta al tipo di pigmento usato e alle dimensioni delle sue particelle. Tutto ciò che viene aggiunto ai pigmenti nella preparazione della patina, cioè i leganti, i ritentori d’acqua, i livellanti ed i regolatori di flusso riducono il livello di lucido ottenibile. È bene inoltre sapere che un pigmento formato da particelle uniformemente molto fini (ad esempio 95% inferiori a 2 micron e 78-80% inferiori a 1 micron) permette di ottenere lucidi più elevati di quelli ottenibili da un pigmento più grossolano. L’operazione “patinatura” consiste nello spalmare uniformemente sulla superficie del foglio uno strato ben definito di patina; per fare ciò ci si avvale di macchine dette “patinatrici” che, nel tempo, sono andate via via modificandosi pur mantenendo fermi i momenti caratteristici dell’operazione:

  1. l’applicazione, sul foglio, di una quantità esuberante di patina;
  2. la sua uniforme distribuzione su tutta la superficie, eliminando l’eccesso;
  3. il suo asciugamento;
  4. il suo condizionamento ad una ben definita umidità relativa.

La prima patinatrice patinava un solo lato del foglio ed era identificata anche come “patinatrice semplice”. Se si voleva patinare anche l’altro lato si doveva ripassare sulla macchina il foglio monopatinato. Un cilindro, immerso nella patina contenuta nel calamaio, applicava in modo disuniforme una quantità esuberante di patina sul foglio che, subito dopo, aderiva con il lato non patinato, alla superficie di un cilindro di notevole diametro (tamburo patinatore) e porgeva il lato patinato all’operazione di distribuzione uniforme su tutta la superficie, operazione che veniva effettuata da spazzole, lunghe quanto era largo il foglio, montate a due o a tre su dei telai mobili e regolabili, in modo da poter “premere” più o meno sulla superficie patinata. I telai, grazie ad una camme, avevano un doppio movimento e facevano compiere alle spazzole delle specie di ellisse, sicché la patina veniva distribuita con spazzolature di senso alternato. Le spazzole erano rigorosamente di setole di porco, le prime più dure e le successive meno. Tutte erano mobili, tranne le ultime, che dovevano dare la finitura e che dovevano essere morbidissime (i piumini, rigorosamente di pelo di tasso). Dopo le spazzole il nastro di carta entrava nel tunnel e “galleggiava” su di un cuscino di aria calda che asciugava e “bloccava” la patina al punto da non “sporcare” il feltro, praticamente il primo ed unico “punto fisso” tra lo svolgitore e l’avvolgitore. L’asciugamento veniva quindi completato nella cosiddetta “distesa” o “bastoniera”, ove un giro di bastoni sosteneva il foglio, appeso come un festone alto 3 metri, mentre da sotto veniva insuffiata aria calda. Entrare ed aggirarsi tra i festoni (stiamo parlando di percorsi di 20-25 metri per il tunnel e di altrettanti e più per la distesa) dava sempre l’impressione di essere in mezzo a 100 lenzuola stese ad asciugare dopo il bucato.

Nell’ultima parte, prima di venire riavvolta, la carta passava attraverso una specie di sauna ove si riumidificava ad una umidità relativa più consona. Prima dell’arrotolatore i bastoni, attraverso un percorso alternativo, ritornavano nei paraggi del feltro e riprendevano il nastro per riaccompagnarlo nuovamente lungo tutta la distesa. Il passo di poco successivo fu la patinatura contemporanea dei due lati del foglio e, nella patinatrice, il tamburo patinatore lasciò il posto alla fila di spazzole inferiori. E vennero quindi i rullni, che presero il posto delle spazzole e consentivano velocità di produzione più alte, anche se patinare con i rullini dei supporti leggeri non era quasi mai gratificante. E giungiamo quindi ai nostri giorni, ove la fase di patinatura segue il medesimo procedimento, ma val la pena ricordare che in pochi anni lo sviluppo tecnologico ha permesso di passare dai 20-30-40 metri al minuto delle prime patinatrici a spazzole agli 800-1000-1200-1400 metri al minuto delle attuali patinatrici. E sugli impianti pilota si toccano già i 2000 metri.

ALLESTIMENTO

BobbineI clienti, quando ordinano la carta alla cartiera, staccano l’ordine avendo ben presente il lavoro che devono fare e le macchine da stampa che ritengono di utilizzare.

Poiché i clienti sono tanti, i lavori i più disparati, il parco macchine da stampa variato e numericamente assai consistente, si comprende il perché sia difficile semplificare in pochi standard le varie voci (richieste) degli ordini.

Ma alcune standardizzazioni, a livello generale, possono essere fatte:

  • carta in rotolo (per stampa in roto-offset o in rotocalco o simili)
  • carta in formato (per stampa in offset piano)

L’allestimento delle carte in rotolo avviene servendosi di macchine chiamate “bobinatrici”, le quali provvedono a ricavare, partendo dal rotolo a tutta altezza di macchina continua, dei rotoli di altezza inferiore.

PalletNell’allestimento della carta in formato vengono impiegate macchine, le “taglierine”, che consentono di tagliare e raccogliere in fogli di dimensione voluta la carta avvolta in rotolo.
Il taglio trasversale avviene sotto il “coltello” che, in funzione della grammatura della carta, può tagliare contemporaneamente 3, 4, 5, 6 e fino a 12 fogli sovrapposti.

I fogli tagliati vengono raccolti, alla fine della taglierina, su dei pallets (raccoglifoglio) che, accuratamente protetti da un idoneo avvolgimento (polietilene termoretraibile), prenderanno la strada dei magazzini e, quindi, del cliente cui sono destinati.

La carta tagliata in formato può essere venduta impaccata (a 500, a 250, a 100 fogli in funzione della grammatura) su pallet, in pacchi confezionati con un’apposita carta protettiva (generalmente politenata), oppure “sfusa” su pallet (bandierata).

CLASSIFICAZIONE DELLE CARTE

La classificazione delle carte non è semplice visto che, gli usi a cui è destinata, sono molteplici. Esistono diversi tipi di carta. Ecco un elenco parziale:

  • Carta
  • Cartoncino
  • Cartone
  • Cartone
  • Cartone ondulato
  • Carta velina
  • Carta increspata
  • Carta glassine
  • Carta igienica
  • Carta da parati
  • Carta carbone
  • Carta gommata
  • Carta monolucida
  • Carta patinata
  • Carta velina
  • Carta politenata
  • Carta di Amalfi
  • Carta ECF
  • Carta chimica
  • Carta termica
  • Carta da forno
  • Carta siliconata
  • Carta da lucido
  • Chine-collé
  • Carta da zucchero

I prodotti cartari si possono però suddividere in 6 grandi categorie:

  1. carta da stampa che vengono usate generalmente per giornali e guide telefoniche, per stampa in offset che siano essi depliant, volumi pubblicitari, per rotocalco, per roto-offset e anche per carte speciali (carte geografiche, carta moneta e per assegni);
  2. carta da scrivere e per ufficiosotto questa voce generalmente possiamo trovare lacarta per buste, carta per quaderni, carta per disegno, carta per fotocopie, carta per fax, carta da diazotipia, carta carbone e autocopiante;
  3. carte da imballaggio (possiamo racchiudere qui generalmente la carta kraft, crespata e per sacchetti, carta per alimenti, carta pergamena vegetale, carta uso pergamena, carta pergamino, carte catramate, siliconate, accoppiate con plastica);
  4. cartoni e cartoncini (cartoni a un getto, cartoni a più strati, cartoni ondulati, carta da onda, cartoni pressati,cartonlegno);
  5. articoli igienico-sanitari (carta igienica, fazzoletti, tovaglioli e tovaglie, asciugamani, carte per uso medico);
  6. carta per uso industriale e varie carte per cavi elettrici e condensatori, carta per laminato plastico, carta per sigarette, carta per fotografia, carta da filtro, carta adesiva, carta decorativa, carta da parati.
LE CARTE PER USO GRAFICO

Difetto sotto il fiore macchia della cartaTra i vari tipi di carte e cartoni una posizione di assoluto rilievo la occupano le carte grafiche, cioè quelle carte destinate a diventare supporto per la stampa.

Fanno parte di questa categoria le carte usate per produrre quotidiani, settimanali, periodici in genere, libri, pieghevoli, biglietti, carte e buste intestate, calendari e per realizzare tanti altri prodotti stampati. Ognuno di essi ha specifiche richieste: economicità, minimo spessore, giusto rapporto tra peso e volume, resistenza all’uso, alla luce, al tempo, rigidità, finitura superficiale colore.

Le carte da stampa si possono classificare a seconda del procedimento di stampa al quale sono destinate:

  • offset;
  • rotocalco;
  • flessografia;
  • serigrafia.

Le carte destinate alla stampa dovranno inoltre essere adatte alle lavorazioni di post-stampa dette anche di confezione quali:

  • il taglio;
  • la piegatura;
  • la cordonatura;
  • la cucitura;
  • l’incollaggio.

Stampare significa trasferire, mediante pressione, l’inchiostro dalla forma da stampa inchiostrata al supporto. Stampare bene significa trasferire l’inchiostro sul foglio senza deformazioni e alterazioni del segno in modo da ottenere un’impronta nitida, secca e dell’intensità prevista. Perché ciò avvenga è necessario che mediante la pressione di stampa si riesca ad ottenere un perfetto contatto tra la superficie inchiostrata e il supporto di stampa. Tenendo conto che la carta normalmente ha un basso coefficiente di comprimibilità, si tende a produrre la carta da stampa con il più alto grado di liscio possibile e ciò, appunto, per facilitare il contatto e quindi il trasferimento.

Carte da stampa che per esigenze estetiche debbano presentare la superficie ruvida o addirittura marcata o goffrata non potranno essere stampate in rotocalco e in generale nei sistemi a stampa diretta. Saranno invece stampabili con i procedimenti offset e roto-offset. I procedimenti offset sono detti a stampa indiretta in quanto la carta non preleva direttamente l’inchiostro dalla forma da stampa inchiostrata, ma lo riceve da un elemento intermedio costituito da una superficie di gomma di opportuna durezza ed elasticità che si adatterà alla superficie del supporto rendendo così possibile un buon trasferimento anche su superfici a basso grado di liscio.

È noto che la stampa di soggetti a colori si ottiene in passaggi successivi depositando sul foglio, ogni volta, uno dei tre colori primari più il nero. Ciò avviene in macchine costruttivamente molto precise che garantiscono, anche alle attuali elevate velocità di esercizio (15.000 fogli/ora per le macchine a foglio e 50.000 giri-macchina per le rotative), una perfetta sovrapposizione delle immagini monocromatiche costituenti il soggetto finale.

A questo scopo è molto importante anche il contenuto igrometrico della carta. La carta lascia la cartiera con un ben preciso contenuto d’acqua in modo che durante il processo di stampa non abbia né a perdere né ad aumentare il contenuto di umidità garantendo così il massimo della stabilità dimensionale.

La carta da stampa avrà quindi caratteristiche:

  • funzionali al prodotto da ottenere;
  • ottico-estetiche;
  • di stampabilità;
  • di macchinabilità sia durante la fase di stampa che di allestimento.

Tutte le carte possono inoltre subire un trattamento finale di lisciatura o di calandratura. La calandratura aumenta il grado di liscio e conferisce un’elevata lucidità.

PROPRIETA’ MECCANICHE
Proprietà della carta

La carta ha un’ottima resistenza alla trazione (1), finché la superfice sollecitata non viene torta o deformata. Una striscia di carta larga un centimetro, caricata a pura trazione regge alcuni kg (alcune decine di Newton). Con prove semplici, il punto di rottura è di solito ad uno degli attacchi, perchè qui la carta pizzicata si deforma e si piega.Caricata di taglio (2) mostra ancora una buona resistenza, purchè le sue fibre si mantengano parallele alla forza di carico.

Caricata a flessione (3 e 4) la carta non dimostra grosse proprietà, ma se lo sbalzo è corto e la superfice discreta (campione corto (2 – 3 cm) e piuttosto largo (1 – 2 cm)), allora la resistenza può essere sufficiente allo scopo. Per strisce con rapporto lunghezza su larghezza superiore a 5 o 6 la resistenza a flessione è quasi nulla e non sostiene neppure il peso del campione (a meno di pezzi molto piccoli). Sbalzi oltre i 10 cm non reggono neppure a larghezze notevoli. Se comunque la superfice viene anche solo leggermente curvata (5) in senso trasversale e mantenuta curva, la resistenza cresce subito di molto. Lo stesso effetto di irrobustimento si ottiene con una sagoma trasversale ad “L” (6) dove la paretina verticale introduce la necessaria resistenza.

Il disegno (7) mostra una striscia con sezione a “V” caricata di costa. La resistenza cresce di molto, ma solo se la sezione è mantenuta ad apertura costante. Come mostra il disegno (8), in questo caso la sezione tende ad allargarsi all’estremo non vincolato e questo provoca una piega sulle fiancate che ne distrugge la resistenza e la striscia cede sotto un carico alquanto modesto. Un metodo per contrastare questo cedimento è (9) quello di dotare i bordi della striscia di aletta il più possibile perpendicolare alle superfici laterali della “V”, che a sua volta dovrà risultare piuttosto stretta. In questo modo si ottiene una buona resistenza. A proposito delle pieghe si può dire che quelle nette aiutano a mantenere le fibre della carta parallele quando il carico è di taglio sul bordo di una faccia e parallelo alle piege, mentre distruggono la resistenza in senso obliquo o perpendicolare, per carichi diretti sulla giacitura della faccia. Le pieghe irregolari o riprese sono sempre deboli e quasi sempre dannose.

IL RICICLO DELLA CARTA

Riciclo-carta

Da alcuni anni si parla molto di carta riciclata. Il motivo di questo interesse è legato sia all’aspetto ecologico che a quello economico. Infatti l’uso delle materie seconde (maceri) limita il ricorso alle materie prime vergini e contemporaneamente riduce la quantità di materiali destinati alle discariche con abbattimento dei costi di smaltimento. Forniamo alcuni dati statistici per meglio conoscere il problema e l’importanza della raccolta differenziata del macero prima che confluisca nei rifiuti:

  • ogni anno vengono avviate alla discarica in Italia oltre 1.000.000 di tonnellate di quotidiani e periodici e circa 100.000 tonnellate di stampati la cui raccolta fornirebbe altrettanta materia prima di qualità alle cartiere italiane. Il tasso di raccolta italiano è in assoluto il più basso in Europa (28% contro 58% in Germania). Poiché i materiali cellulosici rappresentano tra il 25 ed il 30% dei rifiuti solidi urbani e tale quota è crescente, le amministrazioni locali sostengono un onere elevatissimo – a carico della collettività – per avviare in discarica tale materiale;
  • per produrre circa 6,8 milioni di tonnellate di carta all’anno – di cui 2,8 di carte per uso grafico – l’industria cartaria italiana consuma circa 3,3 milioni di tonnellate di carta da macero, di cui circa 800.000 tonnellate di giornalame misto. Oltre 200.000 di queste sono importate, proprio a causa del modesto livello di raccolta interna, con la conseguenza di un più elevato costo del macero utilizzato e di una minore competitività dell’industria cartaria italiana rispetto alla concorrenza internazionale;
  • in totale un milione di tonnellate di macero è importato nel nostro Paese per produrre carta, mentre oltre 4 milioni di tonnellate di carta e cartone vanno in discarica pur essendo recuperabili. Alla raccolta delle famiglie si aggiunge quella effettuata direttamente dalle industrie o tramite raccoglitori specializzati nei centri stampa.

Le fasi del processo produttivo delle carte riciclate sono simili a quelle di altre per le quali vengono impiegate materie prime vergini, fatta eccezione per la parte iniziale della preparazione dell’impasto. In questa fase è fondamentale togliere dai maceri i materiali estranei, chiamati contaminanti, come plastica, vetro, ferro, colle, paraffina, ecc. la cui presenza crea problemi alla produzione e condiziona la qualità. La pasta dopo la spappolatura passa attraverso una serie di epuratori studiati appositamente per carte da macero. Il procedimento avviene in più fasi in modo da togliere inizialmente le parti più grossolane e via via le più piccole. Più il sistema di epurazione è sofisticato e più la qualità del prodotto finito si avvicina a quello di fibra vergine. Una epurazione accurata è necessaria soprattutto per le carte riciclate da stampa per le quali le esigenze sono maggiori di quelle per altri usi. Una volta terminato il processo di epurazione la pasta viene immessa sulla tavola piana della macchina continua e prodotta con la stessa tecnica delle altre carte. Per produrre carte con un sufficiente grado di bianco, partendo da materie prime meno costose, si ricorre alla disinchiostrazione, con la quale è possibile togliere l’inchiostro presente nei maceri. L’Italia, povera di risorse forestali, ha sviluppato molto la tecnica per l’impiego delle carte da macero nel settore dell’imballaggio e vanta una notevole esperienza e tradizione. Solo da alcuni anni si producono carte riciclate anche per il settore grafico. L’evoluzione tecnologica e il cambiamento di mentalità dei consumatori hanno favorito lo sviluppo di queste ultime e pur essendo ancora agli inizi i risultati ottenuti sono positivi. Infatti le qualità che si producono sono veramente valide e per alcuni usi possono essere utilizzate in sostituzione di quelle di fibra vergine. La produzione di carta riciclata non inquina purché le cartiere abbiano attrezzature adeguate per il trattamento sia delle carte da macero che delle acque di scarico e dei residui di lavorazione. Importante sottolineare, a conferma della ecocompatibilità della produzione delle carte riciclate, che i residui di lavorazione (fanghi) possono essere riutilizzati in più settori: industria laterizi, lavori stradali come sottofondi, per emendanti agricoli. Per concludere, in un mondo di “usa e getta” la filosofia di “usa e riusa” trova spazio anche nell’industria della carta e con risultati positivi perché permette la valorizzazione di materiali e prodotti alternativi.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
  • Enciclopedia Treccani;
  • Enciclopedia di Scienza e Tecnologia gruppo editoriale Fabbri;
  • //fc.retecivica.milano.it/rcmweb/GiovanniXXIIICusanoM/lavori_alunni/carta/fabbricazione.htm;
  • //www.ipst.gatech.edu/amp/collection/index.htm Museum of Papermaking;
  • //artgraph.clisson.free.fr/html/papier.htm.
PUOI LEGGERE ANCHE:
ANCHE NOI SCRITTORI
Alunno/i autore/i dell’articolo:
ALESSANDRO MARCELLINO
Classe e Anno: Argomento di Riferimento:
Prima D – 2012/13 CARTA
Nov 282012
 

Continuiamo a scoprire gli strumenti che ci potranno risultare utili per un uso professionale e evoluto di Word: gli STILI. Cosa sono? In pratica si tratta di una serie di caratteristiche di formattazione che assegnamo ad un testo ed a cui assegnamo un nome che le identifica. Per comprendere meglio di cosa si tratta, proviamo a fare un esempio.

Prendiamo ad esempio il I canto della Divina Commedia di Dante Alighieri:


Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita.“.

Questo il testo “normale” di default. Assegnamo a questo testo, adesso, delle caratteristiche personali. Ad esempio, carattere ARIAL, dimensione 14 punti, corsivo e colore rosso. Il testo diverrà:

Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita.“.

oppure, Comic Sans, 18 punti di altezza, grassetto e sottolineato:

Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita.“.

Ricordiamoci, che la formattazione di un testo è importantissima, e va effettuata prima di iniziare a lavorare. Inoltre, le scelte che operiamo per le caratteristiche di impaginazione e del testo, vanno effettuate in relazione al risultato finale che ci proproniamo di raggiungere. Ad esempio, se debbo scrivere una poesia, la scelta del carattere, la spaziatura, l’interlinea ed ogni altro parametro (vedi WORD: FORMATTAZIONI), saranno profondamente diverse da quelle effettuate per la realizzazione di un libro o di una relazione.

Ma come facciamo a definire uno stile? E’ semplice; nel menu FORMATO, troveremo la voce STILE; cliccandovi sopra, si aprirà la finestra di dialogo nella quale troveremo tutti i parametri per definire un nuovo stile o modificarne uno esistente.

Ma esiste un metodo più rapido e semplice per creare un nuovo stile. Dobbiamo selezionare il PARAGRAFO (vedi WORD: FORMATTAZIONI) sul quale abbiamo applicato le scelte di formattazione che vogliamo diventino uno stile di riferimento per il documento. A questo punto spostiamo il mouse sulla casella dello stile nella barra degli strumenti (quella dove c’è scritto “Normale”), e cliccandovi sopra dobbiamo semplicemente digitare il nome che vogliamo attribuire allo stille creato, ad esempio “Mio Stile”. Da questo momento lo stile entrerà a far parte degli stili del documento e potrà essere selezionato quando ne abbiamo bisogno.

Quindi, potremo creare stili per ogni necessità: per il testo del documento, per i titoli dei capitoli, per le didascalie, per i titoletti dei sotto-capitoli, e così via. Fatto ciò inizieremo a scrivere il nostro documento a cui assegneremo gli stili creati, non preoccupandoci più della formattazione del documento o del suo testo. E questo già ci aiuta nel lavoro non dovendo ogni volta riassegnare i parametri di formattazione.

Ma, durante il lavoro ci accorgiamo che abbiamo necessità di cambiare alcuni di questi parametri. Normalmente avremmo dovuto selezionare manualmente tutto il testo a cui vogliamo cambiare le caratteristiche (ad esempio cambiare carattere da ARIAL 12 a TIMES 10). MA CON GLI STILI DIVENTA TUTTO PIU’ FACILE. Selezioniamo un qualunque paragrafo nel documento che abbiamo scritto e modifichiamo solo a questo il carattere come deciso sopra. Andiamo sulla casella dello stile nella barra degli strumenti e selezioniamo lo stile “Mio Stile”. A questo punto, Word rilevando una differenza tra “Mio Stile” registrato e il paragrafo modificato, chiederà all’utente “Ridefinire lo stile usando il testo selezionato come esempio?” Rispondendo “OK”, Word provvederà a modificare “tutti” i paragrafi formattati con “Mio Stile”, anche se questi sono centinaia, tutto in un istante. Come potete capire, gli STILI fanno un lavoro incredibile, perché possiamo permetterci di cambiare idea o di voler modificare il documento in qualunque momento, effettuano una sua modifica integrale in pochissimi istanti.

Nov 212012
 

Scrivere con Word di Microsoft e creare un documento .DOC è abbastanza facile, tutti ci siamo cimentati ad usare almeno una volta il programma principe per la videoscrittura. Altra cosa, invece, è usare Word professionalmente per creare documenti complessi e articolati. Il vantaggio di usare un programma di video-scrittura, o un programma per computer in generale, è che questi debbono rendere facile e rapida qualunque operazione per quanto complessa. Word (parola in inglese) serve proprio a facilitare la scrittura, nel senso di aiutare nell’impaginazione, nello stile e soprattutto nella correzione dei testi. Per fare questo è dotato di strumenti evoluti ed è programmato per assistere l’utente durante il suo lavoro. Ma affinché Word risulti effettivamente utile siamo noi a dover conoscere e domare i suoi potenti strumenti. Scopriamone insieme qualcuno.

Per prima cosa dobbiamo conoscere come si chiamano i vari elementi che Word visualizza e in questo modo saremo in grado di riconoscerli, modificarli e utilizzarli con sicurezza. Iniziamo con l’osservare una normale pagina scritta e impaginata con Word; sotto ho inserito due immagini, una con la pagina appena detta, e accanto un’altra immagine che differenzia con i colori le diverse parti di cui si compone una sua pagina. Cliccate sulle immagini per ingrandirle:

Pagina in Word

Elementi della Pagina in Word


Analizziamole tutte, una per una:

CORPO DEL TESTO (azzurro) si tratta della vera e propria area di scrittura, lo spazio dove ci sarà consentito scrivere; questo spazio è delimitato dai MARGINI, spazi modificabili che creano un’area bianca attorno al testo come fossero una cornice.

All’interno del CORPO DEL TESTO, possiamo individuare diversi elementi che lo compongono:

TITOLO (blu scuro) si tratta di un elemento stilistico che si differenzia per carattere, dimensione, stile, perché descrive il significato dell’opera che stiamo scrivendo.


PARAGRAFO (blu chiaro) in Word, ogni porzione di testo racchiusa tra due punti a capo, prende il nome di paragrafo e non va confuso con i paragrafi di un libro che rappresentano, invece, parti più piccole all’interno di un capitolo.

Dove trovarlo: dal menu FORMATO, alla voce PARAGRAFO, si aprirà una finestra di dialogo che consentirà di impostare o modificare i diversi parametri di cui si compone.


IMMAGINE (viola) vale anche per ogni altro contenuto multimediale tipo video, audio, animazione. Per l’inserimento di questi contenuti abbiamo già visto la precedente lezione, WORD: SAPER SCEGLIERE E INSERIRE LE IMMAGINI. All’immagine può essere abbinata una DIDASCALIA.


DIDASCALIA (rosso) questa è il testo che descrive l’immagine. Può essere abbinata ad una etichetta per l’indicizzazione, ossia per poter essere inserita in un elenco delle immagini a fine documento.

Dove trovarlo: dal menu INSERISCI, alla voce DIDASCALIA, si aprirà una finestra di dialogo che consentirà di fissarne i parametri.


MARGINI (giallo) rappresentano i limiti entro i quali sarà inserito il testo del nostro scritto. I margini saranno sempre SUPERIORE, INFERIORE, DESTRO e SINISTRO.

Dove trovarlo: dal menu FORMATO, alla voce DOCUMENTO, si aprirà una finestra di dialogo che consentirà di inserire una dimensione per ogni margine. Bisogna ricordarsi che se si vuole rilegare il documento, il MARGINE SINISTRO dovrà essere maggiore, perché una parte del foglio servirà per la rilegatura e non sarà utilizzabile.


INTESTAZIONE e PIE’ DI PAGINA (verde) sono gli spazi in cui inserire informazioni in merito al nostro scritto. Ad esempio nell’intestazione visualizzata, si trovano informazioni sulla finalità dello scritto, l’autore e la sede di lavoro, mentre nel piè di pagina, si trova il titolo dell’opera e il contatore delle pagine con pagina visualizzata e numero di pagine totali del documento. Ciò non toglie che è possibile inserire qualunque genere di informazione, ricordandosi che queste saranno visibili in tutte le pagine del documento, quindi la scelta va fatta con oculatezza, mettendo in evidenza ciò che si vuole comunicare.

Dove trovarlo: dal menu VISUALIZZA, alla voce INTESTAZIONE E PIE’ DI PAGINA. Si evidenzieranno sulla pagine le aree interessate, mentre per definirne l’altezza, ciò è possibile attraverso la stessa finestra di dialogo del MARGINI.


Bisogna, inoltre, sapere che il testo si distribuisce sulla pagina in base a criteri che noi definiamo in fase iniziale. Il testo, infatti, in Word si può distribuire sulla pagina allineandosi sul margine sinistro (allineamento a sinistra), sul margine destro (allineamento a destra), al centro (allineamento centrato) o su entrambi i margini (allineamento giustificato). 

Prima di cominciare il lavoro, vanno comunque indicati altri parametri attraverso i quali, Word, costruirà il nostro documento. Questi parametri sono: carattere (font), stile, dimensione, colore, interlinea.

La scelta di un carattere non può dipendere esclusivamente da ciò che ci piace, ma deve dipendere dalla finalità e dalle caratteristiche dell’opera che stiamo scrivendo. Per cui, ad esempio, se scrivo una poesia, essendo un testo breve e ricco di licenze, posso utilizzare un carattere con glifi o in stile corsivo, mentre se debbo scrivere una relazione, essendo un documento molto più lungo dovrò utilizzare un carattere semplice e distanziarlo con una interlinea maggiore per non stancare la vista del lettore. Gli stili standard che Word mette a disposizione sono: corsivo, grassetto, sottolineato, ma ciò non toglie che posso mischiare a piacimento questi tra loro, per cui avrò un corsivo sottolineato, oppure un grassetto in corsivo. Possiamo mischiarli come vogliamo e possiamo anche variarne il colore, per cui un testo può essere evidenziato colorandolo di rosso ad esempio. L’interlinea ci consente di distanziare le righe tra di loro e possiamo modificarne il valore attraverso la stessa palette del comando PARAGRAFO.

IMPORTANTE: tutti questi parametri vanno fissati prima di iniziare a scrivere. Perderete un po’ di tempo all’inizio, ma vi assicuro che in seguito ne risparmierete proprio tanto e scopriremo perché.

Apr 242012
 

L’uomo ha sempre cercato di comunicare, escogitando sempre nuovi metodi e trovato soluzioni che rendessero questo processo, più rapido, meno costoso e più duraturo. Il mezzo individuato è quello che oggi chiamiamo con il termine scrittura. Il primo segno tangibile di questo processo, lo troviamo nelle scene incise sulle rocce; rappresentazioni di vita quotidiana o scene di caccia, un primordiale metodo basato sull’abrasione attraverso punta a scalpello di una roccia più tenera. Ma l’esigenza di comunicare era intrinseca nell’uomo, per cui gli studiosi sono d’accordo sul fatto che la scrittura si sviluppò contemporaneamente in più parti del mondo, dalla Mesopotamia all’antico Egitto. E’, infatti, da attribuire a loro il primo vero linguaggio di comunicazione scritto, attraverso quelli che oggi conosciamo come geroglifici, ossia complessi ideogrammi che racchiudono in se non solo una parola ma anche un’intera scena. Ed è sempre a loro che si attribuisce il primo strumento atto a scrivere, cioè la penna. Si trattava essenzialmente di una cannuccia o una penna di volatile (penna d’oca) inzuppata in inchiostro di origine animale (inchiostro di seppia) o vegetale (inchiostro ferrogallico e inchiostro cinese, noto come inchiostro di china). Questa cannuccia, intinta in questa sostanza gommosa permetteva agli scribi egizi di tracciare i geroglifici sui fogli di papiro. Il suo nome era calamo e veniva incisa obliquamente per consentire all’inchiostro di scorrere in modo uniforme.

Gli scolari romani, per evitare di sprecare la costosissima pergamena, scrivevano incidendo con uno stilo appuntito tavolette di legno spalmate di cera. Già nel mondo antico romano erano in uso tiralinee in metallo, con estremità appuntita e ripiegata a V, nella quale si poneva l’inchiostro; la maggiore resistenza del metallo garantiva stabilità allo spessore della linea tracciata. I loro lunghi esercizi di scrittura potevano essere cancellati rinnovando la cera della tavoletta, maneggevole quanto quanto una piccola lavagna.

Dal XVII secolo si iniziarono a vedere sulle penne d’oca i primi pennini, dato che a lungo andare l’asta della penna d’oca si consumava e bisognava tagliarla e poi cambiare penna, si incominciò a inserire sulla punta della penna una copertura in metallo con un taglietto centrale verticale, il pennino appunto.
Le prime ad utilizzarli furono le religiose di Port Royal, alla fine del 1600, che usavano pennini di rame che fabbricavano da sé. Si svilupparono poco all’inizio perchè erano molto costosi e fatti a mano. Essi erano montanti su cannucce di legno che sostituivano le penne d’oca.
Con la rivoluzione industriale nacquero i pennini fatti in serie. L’inglese Gillot, che aveva studiato presso il coltellinaio Skinner, intorno al 1820, apprendendo l’arte della fusione, della tempra e della laminazione dei metalli, trovò un modo per produrre questi pennini con prezzi di molto inferiori e con una elevata qualità tecnica. Questo avvio di produzione industriale, favorì la diffusione su larga scala dapprima in Europa e poi nel resto del mondo. Il pennino, montato su di una cannula in legno o su una penna d’oca, doveva essere intinta in un calamaio contenente inchiostro. Per cui la produzione di pennini sarà, almeno in questa fase iniziale, accompagnata dalla produzione di contenitori realizzati in metallo o altro materiale, impreziosite da serigrafie, intarsi, colori e disegni.
Dalla penna e calamaio alla stilografica il passo è breve. A fine ‘800, nasce appunto la penna stilografica, che ricalca la tecnica del pennino, ma include in se stessa dentro l’astuccio, l’inchiostro necessario alla scrittura eliminando di fatto il supporto esterno del calamaio.

Dal 1930, l’evoluzione tecnica della stilografica fa la sua comparsa sul panorama mondiale. Il graphos con pennini intercambiabili e corpo con serbatoio d’inchiostro. Ma la difficoltà a tenere puliti i pennini, fa in modo che si cerchi una soluzione: questa è il rapidograph (nel 1952, prima a serbatoio e poi con cartuccia rimovibile) a cui seguiranno altre evoluzioni di penne tecniche specifiche. Ancora oggi, il rapidograph rappresenta un’eccellenza nel campo della grafica. Questo strumento si è evoluto pur mantenendo le stesse caratteristiche di base della sua comparsa. E oggi, nell’era dei computer, si evolve diventando uno strumento in grado di scrivere ad altissima velocità, con enorme precisione e autopulente. Ma come ogni strumento tecnico, nasce, si sviluppa lungo un arco tempo più o meno lungo, ed è soggetto ad un inevitabile declino, superato da altri strumenti tecnicamente più avanzati. Il rapidograph, sta lasciando il campo alle testine di stampanti e plotter che depositando migliaia di microgocce di inchiostro liquido sulla carta tracciando segni di assoluta precisione in tempi decisamente inferiori.

BIC, QUANDO SI PARLA DI PENNA

In quest’epoca, in cui il digitale la fa da padrona, in cui cellulari e tablets hanno sostituito la penna per scrivere e a volte la parola per dialogare, ancora delle vecchie penne qualcosa resiste. E non parlo di prestigiose stilografiche o penne d’oca con tanto di calamaio, ma di un semplice, trasparente, insignificante contenitore di plastica. Sto parlando ovviamente della penna BIC, compagna di tutti almeno una volta nella vita, strumento di scrittura sempre disponibile in ogni astuccio scolastico che si rispetti. La penna BIC ha attraversato le epoche, fatto moda, partecipato al nostro modo di vivere e ancor oggi, strumento di scrittura più utilizzato. Ma perché la penna “biro” si chiama BIC? Tutti l’abbiamo utilizzata, ma solo pochi conoscono il significato del suo nome. Forse proprio perché il suo nome si deve al suo scopritore come sempre capita per ogni invenzione? Scopriamolo.

La storia inizia dall’ungherese László József Bíró (1899-1985) a cui si deve l’invenzione della prima penna sfera chiamata appunto biro. Bíró, non sopportando più le macchie di inchiostro lasciate dalle penne stilografiche molto in uso a quell’epoca, osservando un gruppo di bambini che giocava a biglie, ebbe un’illuminazione: usare l’inchiostro delle rotative per la stampa dei giornali e inserire una piccola sfera metallica nella punta della penna per renderlo più fluido. Nel 1943 esce il suo brevetto e intorno agli anni ’50 ad opera del francese Marcel Bich (1914-1994) si riuscì a perfezionare tale invenzione. Bich, nel 1950 lancia Cristal, la prima penna a sfera frutto del suo lavoro. Il brand per pubblicizzarla, nasce togliendo al cognome di Bich la “h”, da cui BIC. La penna si diffonde molto rapidamente, prima in Francia e poi negli Stati Uniti (1958). Dagli anni ’70 in poi, il brand si arricchirà di altri oggetti, quali accendini, lamette ed altri accessori. In questi anni la produzione non si è mai fermata ed oggi sono state commercializzate oltre 100 miliardi di penne BIC, per un successo globale senza precedenti. La BIC, infatti, con il suo carattere temporaneo, usa e getta, ha in qualche modo anticipato e incarnato la nostra epoca, ha fatto proprio quel concetto di obsolescenza percepita che contraddistingue questi nostri tempi di consumismo.

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Apr 042012
 

Il disegno si sa, è un linguaggio di comunicazione non verbale. Questo vuol dire che prescinde dalla parola; in pratica il disegno è sempre stato e sarà sempre un linguaggio universale, perché travalica le regole del linguaggio parlato.  Le regole, o norme, applicate al disegno, hanno incardinato i significati espressivi di questo metodo rappresentativo su binari comprensibili da tutti. Ma anche il miglior linguaggio, se non supportato da strumenti idonei perde molte delle sue peculiarità espressive e comunicative. Ecco perché, insieme all’importanza che gli strumenti del disegno (di cui abbiamo già parlato) hanno pian piano assunto, altrettanta importanza hanno assunto i supporti a questa tecnica descrittiva. Si è passati dal graffito sulle rocce a materiali più pregiati quale il legno, le tele o la terracotta. Ma la vera evoluzione del disegno nasce dalla ricerca che i popoli sin dal passato hanno sviluppato al fine di poter rappresentare e tramandare cultura, pensiero, tecniche, opere della propria società. Affrontiamo, quindi, questo viaggio nella storia alla ricerca dei supporti che l’uomo ha sviluppato per poter scrivere e disegnare; dall’antico papiro egiziano, alla pergamena, per finire con la moderna carta e i supporti sintetici e digitali.

IL PAPIRO

Gli Egizi si sono sempre distinti nell’antichità per le grandi capacità nelle scienze, nella matematica, e per il sistema evoluto di scrittura che svilupparono. Ma per trascrivere queste conoscenze necessitavano di supporti idonei e le risorse disponibili sul loro arido territorio non erano molte. La loro ricchezza derivava e deriva tuttora dalla grande madre, il fiume Nilo che attraversa tutto il paese. Sulle sue sponde cresce spontanea e rigogliosa una pianta, il papiro, da cui fu possibile con una tecnica relativamente semplice realizzare un supprto per la scrittura di notevole pregio. Questo supporto, maneggevole e abbastanza liscio veniva realizzato in rotoli (in latino volumen, da cui il termine volume) di larghezza ridotta, ma di notevole lunghezza. Grazie al papiro fu possibile sviluppare una scrittura complessa, i geroglifici e un disegno geometrico notevolmente preciso, che contribuirono allo sviluppo di questa scienza nel mondo antico.

Dalla pianta alla foglio per scrittura

Ma come facevano gli egizi da una pianta a realizzare un foglio per la scrittura? Il papiro, sotto la corteccia verde esterna, possiede un fusto bianchissimo la cui superficie essiccata era idonea a trattenere l’inchiostro. Gli egizi, tagliavano le piante e liberavano il fusto dalla corteccia; poi lo tagliavano, nel senso della lunghezza in listelli sottili. Le strisce così ottenute venivano accostate l’una all’altra sino a formare una superficie continua a cui veniva sovrapposta un altro strato in senso trasversale. I due strati, venivano lasciati ad essiccare al sole, in questo modo aderivano tra loro senza bisogno di colle e, una volta levigati, formavano un foglio compatto. Questi fogli, venivano poi ridotti nella misura desiderata in modo da formare un rotolo che veniva avvolto attorno a un bastoncino d’osso o di legno. La parte interna del rotolo, con le fibre disposte orizzontalmente, si chiama “recto”, mentre il lato opposto, con le fibre disposte verticalmente, si chiama “verso”. La scrittura veniva realizzata sul recto da sinistra a destra e dall’alto in basso in colonne parallele tra di loro. La lettura avveniva srotolando da sinistra verso destra e nel contempo riavvolgendo quanto srotolato e letto. La lunghezza del rotolo era variabile e dipendeva dallo scritto. Le opere più lunghe, infatti, richiedevano più rotoli.

Rotolo di papiro (schema)

Questo supporto vide la sua decadenza coincidere con il declino dell’impero egiziano e la sua annessione a quello romano. Inoltre, la crisi fu aggravata dalla scarsa reperibilità dimateria prima e per gli alti costi di produzione. Il papiro, permane comunque sia per i documenti che il tempo ha conservato, sia nel linguaggio parlato; si pensi, infatti, che in inglese carta si dice “paper” ed in francese “papier”.

LA PERGAMENA

Al declino del papiro, è corrisposta l’affermazione di un nuovo supporto per la scrittura, sviluppato per la prima volta nella città di Pergamo, da cui ha preso appunto il nome: la pergamena. Pergamo, nel II secolo a.C. possedeva una grande biblioteca che rivaleggiava per splendore e numero di testi con quella di Alessandria. Per la rivalità tra i re, l’Egitto smise di esportare il papiro e il re di Pergamo reagì commissionando la realizzazione di un nuovo supporto per scrivere. Il risultato fu la pergamena, telo ricavato dalla conciatura di pelli di capra o pecora, lisciate con pomice. Tale supporto, aveva  una superficie liscia e resistente, ma di piccole dimensioni di forma rettangolare, che poteva essere rilegato in libri (codici), molto simili a quelli attuali.

Pergamenaio

Ma come si produceva la pergamena? La pelle dell’animale, veniva immersa in una soluzione di acqua e calce per depilarla. Quest’ultima operazione avveniva su un apposito cavalletto “a schiena d’asino”: il pergamenaio. Con una lama non tagliente, il pelo dell’animale veniva staccato dal resto del tessuto. Poi la pelle veniva montata su un telaio e lasciata ad essiccare sotto tensione. Con abilità e precisione, l’artigiano utilizzando un particolare coltello a mezza luna, durante la fase di essiccazione provvedeva a togliere anche i residui di carne sul lato opposto a quello del pelo. Una volta asciutta la pergamena veniva staccata dal telaio e utilizzata.

A volte la pergamena subiva ulteriori trattamenti di raffinazione attraverso l’uso della pietra pomice, per ridurre la differenza di rugosità tra le superfici dei due lati del vello oppure, veniva trattata con sostanze coloranti al fine di renderla cromaticamente diversa.

LA CARTA

I primi segni della carta come la conosciamo oggi li ritroviamo nella Cina del II secolo a.C. Inizialmente questa carta veniva prodotta con la corteccia dell’albero del gelso della carta trattata con bastoncini di bambù. In seguito furono realizzati tipi di carta usando stracci, ma le notizie sono confuse perché la Cina era un paese chiuso. Solo nel 610 d.C. con la diffusione in Giappone e in Asia Centrale, le notizie cominciano a diventare più certe. La carta fu introdotta in Europa dagli arabi e pare che le prime cartiere furono realizzate a Balarm (Palermo) capitale del regno islamico in Sicilia. Infatti, in ogni capitale, gli arabi costruivano una cartiera per stampare il carteggio reale e come simbolo di grandezza e prestigio. Nel XII secolo vicino Bologna viene realizzata la prima cartiera in territorio cristiano ad opera di Polese da Fabriano che poi le diffonderà sul tutto il territorio nazionale. Le cartiere di Fabriano divennero famose per la qualità della loro carta. La materia prima erano stracci di lino messi a macerare e pestati fino ad ottenerne una pasta, da cui si ricavavano fogli mediante telai di rete metallica; pressati e messi ad asciugare i fogli venivano poi raschiati, battuti o rullati per lisciarne la superficie. L’aggiunta di colle animali rese i fogli più resistenti ai liquidi e quindi adatti alla scrittura. Da allora, innovazioni tecniche continue, hanno migliorato notevolmente la carta. La scarsa disponibilità della materia prima (gli stracci di lino), però, ne limitava l’uso per gli alti costi. Nella seconda metà dell’800, con la scoperta del processo di estrazione della cellulosa dal legno, si aprì la stagione per la produzione industriale della carta. Le scoperte nella chimica, permisero di migliorare e differenziare notevolmente la qualità della carta realizzando una moltitudine di tipologie per gli usi più disparati.

Con la macchina continua, il processo di produzione della carta diviene definitivamente industriale. Oggi una macchina di questo tipo, consente di produrre fino a 30 metri di carta al secondo per una larghezza di circa 10 metri, ossia 1500-2000 metri al minuto.

MATERIALI SINTETICI

La crisi dovuta alla deforestazione del pianeta ha indotto ad una nuova sensibilità sullo sperpero di carta e sulla necessità del suo riciclaggio. Lo sviluppo della chimica e le scoperte effettuate in questo campo hanno reso disponibili nuovi supporti ottenuti da polimeri, ossia dagli idrocarburi come il petrolio.

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